Più di 2500 i bicchieri che si sono riempiti di rosati salentini, ma anche italiani e stranieri, nella kermesse che per due giorni ha trasformato Lecce e il Castello Carlo V nel centro del mondo del vino.
Soddisfatti gli organizzatori e pienamente convinti i giornalisti e i referenti delle guide nazionali intervenuti in un press tour che ha voluto raccontare i vini del Salento attraverso l’emozione di vivere il territorio nella sua offerta più completa e accattivante.
Dopo il tempo dei bilanci per deGusto Salento, l’associazione dei produttori di Negroamaro che da tre anni è promotrice di Roséxpo, è tempo di visione e di programmazione partendo dagli spunti giunti dalle interessanti tavole rotonde e dalle degustazioni guidate che hanno messo a confronto vini e produttori di diversi territori. «Bisognerebbe ispirarsi al modello produttivo dell’Abruzzo e a quello di marketing della Provenza dove territorio e immagini emozionali accompagnano il racconto del vino e ne diventano valore aggiunto» ha detto Aldo Fiordelli, tra i curatori della Guida de L’Espresso.
E bisognerebbe ripartire da una considerazione oggettiva, come suggerisce Barbara Toschi di Kippis, «la Puglia, tranne sporadici casi, è quasi completamente assente dalle carte vini italiane». E l’invito ai produttori a credere più in loro stessi e alla necessità di sentire e credere in una propria identità e vocazione è arrivato da Mattia Vezzola di Costaripa tra gli enologi più rappresentativi in Italia quando si parla di bollicine. Ed è ritornato più volte il riuscitissimo modello provenzale. «I cugini francesi – ha ricordato Vezzola – sostengono ben cinque istituti di ricerca; negli ultimi anni sono passati da una produzione di 60 milioni di bottiglie fino a immetterne sul mercato 200 milioni. Hanno investito 600 milioni di euro nella ricerca e credono nella formazione in vigna, in cantina e nella comunicazione». E se in Provenza si investono risorse ingenti, in Italia, come sottolineato da Andrea Terraneo, presidente di Vinarius, non ci sono dati di riferimento quando si parla di vini rosati. «Le enoteche – ha detto Terraneo – non hanno più di 4-6 etichette e tutto è lasciato alla passione personale dell’enotecario, mancano, invece, un sistema di formazione e di comunicazione adeguati».
L’Italia oggi produce 1,5 milioni di ettolitri (fonte élaboration OIV-CIVP, 2015) su una produzione mondiale di 24 milioni di ettolitri e registra un consumo di vini rosati pari al 6% che sfiora punte del 22% negli Stati Uniti e in Francia. Come fare allora? «Vendere il territorio con il vino. Per vendere il rosato borbonico bisogna giocare di sponda vendendo i pomodori» commenta provocatoriamente Luigi Cataldi Madonna, uno dei pilastri della viticoltura abruzzese e italiana, ma di provocazione c’è ben poco come confermato da Fabio Giavedoni, curatore della guida nazionale di Slow Wine, convinto che «storia e territorio sono i due pilastri su cui si forma l’identità ed è qui che deve inserirsi la comunicazione del vino».
«Tanti gli spunti frutto di un confronto ambizioso che per tre giorni ha messo intorno agli stessi banchi d’assaggio produttori, degustatori, giornalisti e appassionati. Oggi – commenta Ilaria Donateo, presidente di deGusto Salento – dobbiamo mettere a frutto le considerazioni giunte dalle discussioni e magari, con l’aiuto dei produttori e delle istituzioni, provare a incidere profondamente sul rilancio dei rosati salentini nel panorama nazionale e internazionale».
Intanto la macchina organizzativa dell’associazione dei produttori del Negroamaro si è già messa al lavoro per la prossima edizione di Roséxpo. Appuntamento nel 2017 a Lecce dal 9 all’11 giugno.